martedì 30 maggio 2017 2 commenti

A volte le notti sono piene di note. Alcune senza senso.




Un po’ di anni fa presi parte ad un concerto in uno stadio trasmesso in diretta televisiva.
Oggi sarebbe una circostanza abbastanza normale, ma allora era considerato un evento.
Unico.
Importante.
A nessun artista fino a quel momento era stata concessa quella possibilità.
A lui sì, perché in quel contesto, in quel momento storico musicale era sicuramente l’unico che poteva permetterselo.
L’unico in grado di affratellare in uno stadio decine di migliaia di persone per ben due concerti di fila, visto che i biglietti del primo erano stati venduti in poche ore.
E per uno dei due ci fu appunto la diretta televisiva in prima serata.

Il mio stato psicofisico era buono.
Mi sentivo tranquillo.
Responsabile, motivato, contento ma tranquillo.
In fin dei conti mi dicevo, se non ci fossi io ci sarebbe un altro al posto mio e tutto sarebbe uguale.
Per cui piedi per terra… e pedalare.
Spesso mi ripetevo questo concetto non certo per mancanza di autostima, ma semplicemente per autodifesa, per cautela.
Sì perché vedevo intorno a me già dalla preparazione degli “eventi“ un clima dove l’esaltazione e la preoccupazione miste a una falsissima modestia la facevano da padrone.
Tutto ciò non solo riguardava l’artista per il quale lavoravo (già negli anni precedenti avevo avuto modo di far parte della “banda” per altri tour), ma soprattutto riferito a tutto quel codazzo infinito di addetti ai lavori e non, che infarcivano le giornate (quasi due mesi di preparazione!!!) che precedevano i concerti.
C’era un andirivieni di individui abbastanza compresi nel ruolo che si affannavano, aggrottavano la fronte, parlavano al telefono in maniera così concitata, seriosa, che sembrava che da quelle conversazioni dovessero scaturire le future sorti del mondo.
Esseri che ti salutavano di striscio, quando lo facevano; che si preoccupavano se si preoccupava il re, e ridevano se rideva il re.
Per il resto erano fermi e timorosi.
Inanimati.
Come se una loro opinione li esponesse troppo.
Ammesso che ne avessero.
Certo una piccola umanità sicuramente non stimolante e non stimabile, che in vena di magnanimità avevo ribattezzato “la corte dei miracoli”.

Per cui con quel clima, per non cadere nel pozzo senza fondo dell’autocelebrazione professionale vivevo le giornate cercando di estraniarmi da tanta esagerazione, ma al tempo stesso attento non stare troppo defilato per non dar l’impressione di prendere tutto sottogamba, con un comportamento che sarebbe potuto apparire ai più superficiale, quasi snob.
Facevo il giusto insomma, almeno secondo me.
Purtroppo in certe situazioni di lavoro occorre essere attenti soprattutto agli atteggiamenti assunti non solo alla sostanza alla capacità professionale (che è previlegio di pochi comprenderla).
Essere totalmente se stessi è un lusso che a volte non ci si può permettere.

Ma in tutto questo andazzo fortunatamente non mi sentivo solo.
Ero entrato (e la cosa era reciproca) in sintonia con un altro musicista che guardava il mondo più o meno come me, dalla stessa finestra; con lui almeno condividevo tutte quelle incongruenze, quelle situazioni grottesche che ci si paravano ripetutamente sotto gli occhi.
E soprattutto ridere di quegli accadimenti quotidiani oggettivamente esagerati.
Tanto.
Perchè il nostro ridere era l’unico tappo, che una volta tolto faceva defluire le acque del ridicolo in maniera liscia e veloce giù per le tubature del buon senso.
Almeno quello che noi due credevamo fosse buonsenso.
Specialmente alla fine della giornata, quando tutti si ritiravano nella proprie stanze, ci trovavamo nella mia o nella sua a sentire un po’ di altra musica, o a chiacchierare, ma soprattutto a ridere di tutto, anche di noi stessi, ovvio.
Ci “disintossicavamo“ così. 
Così volevamo bene a noi stessi.
Le prove per i concerti si tennero in una località tra Lazio e Umbria in un agriturismo molto spartano dove non arrivava il segnale televisivo, i telefoni prendevano a fatica e non c’erano apparenti distrazioni.
Il paese più vicino non tanto per la distanza ma per la tortuosità del percorso, restava così una specie di chimera.
La giornata tipo era così scandita:
dopo la colazione iniziavano le prove, poi pranzo, piccola pausa pomeridiana e ancora prove fino all’ora di cena; poi cena e talvolta ancora una ripresa delle prove (o finte prove) per un paio d’ore.
Poi nanna.
Detto così sembra la giornata di stakanovisti incalliti; ma tutte queste ore non erano realmente usate per...; 
stazionavamo in sala prove per i tempi descritti, ma tra i ritardi dell’artista, situazioni tecniche da sistemare e soprattutto i dubbi del re relativi alla scelta del repertorio e conseguente scaletta e agli arrangiamenti dei pezzi da eseguire, di tutte quelle ore realmente per suonare ne impiegavamo meno della metà.

Ma i terribili dubbi sono i momenti che ricordo maggiormente.
Quei dubbi.
E’ lecito per carità averne, anzi è quasi auspicabile soprattutto in ambiti artistici o di mestieri confinanti con l'arte.
Il dubbio quando si insinua è sempre sinonimo di intelligenza, umiltà, di vita e a volte necessario per confrontarsi.
Ma è la modalità, la rappresentazione esteriore del dubbio che allora e anche oggi mi lasciava e mi lascia incredulo.
Quando il dubbio confina con il tormento, con la lacerazione dell’anima, col contorcimento delle budella.
Potrei capirlo se si trattasse di dare l’assenso per espianto di organi di una moglie o di un figlio.
Potrei, scendendo di graduatoria, comprendere se il dubbio ci cogliesse nella richiesta ed elaborazione di un mutuo, nei preparativi di una cerimonia importante, addirittura, scendendo ancora, nella scelta di una vettura o di uno strumento.
Ma può un uomo alle soglie di una cosa bella come un concerto (della propria musica, col proprio nome in cartellone, … cioè il popolo viene perché ci sei tu, perché sei tu a chiamarlo a raccolta...) mostrare tanto disagio, tormento, tanta opacità intellettuale?
Tutto ciò solo perché non riesce a fare una scaletta che piaccia o magari a trovare una soluzione armonica che vada bene per quel finale di quel determinato brano?
A me allora, ma ancora oggi sembra un’assurdità, una reazione scomposta, quasi isterica... o parte di una inconsapevole sceneggiatura.
Intendiamoci, non è che nessuno piangesse o si strappasse i capelli, però in quei momenti c’era nell’aria un’insoddisfazione generale, una smania, un non detto, che si poteva quasi afferrare.
C’erano degli imbarazzanti minuti di silenzio paragonabili solo a quelli generati a scuola dal professore quando scorreva il registro per scegliere chi interrogare.
In prima fila ovviamente la corte dei miracoli che, se presente, seguiva esclusivamente gli umori del re.
La corte annuiva o dissentiva, ma aveva lo sguardo perso nel vuoto; si faceva venire le rughe dubbiose e magari alla fine esplodeva in un ottimismo esagerato solo se per una serie di motivi s’era trovato il bandolo della matassa.
E specialmente se il re si mostrava soddisfatto.
Insomma dei veri “professional yes men“.
Ma forse chissà, loro avevano capito prima come va il mondo…
Almeno “quel mondo“.
Contento io di non averlo ancora capito.
In tutto questo quadretto, gli unici colori fuori dalla cornice eravamo io e il mio amico in sintonia.
Non che facessimo niente di che, anzi se il clima diventava teso cercavamo di sdrammatizzare con una battuta, una risata, cercando anche inconsciamente di dare le giuste proporzioni all’accaduto, e in modo tranquillo cercavamo di contribuire alla soluzione del caso sempre con relax, buonumore e positività.
Sempre.
In fondo eravamo lì tutta gente meritevole ma anche fortunata.
Stavamo facendo il lavoro che avremmo voluto fare, ma che da piccoli non avremmo lontanamente sperato.
La salute era con noi, si fabbricava musica, che è una delle cose più belle che la vita può regalarti; oltretutto guadagnavamo in due mesi tra prove, concerti e promozioni televisive quello che qualcuno guadagnava in otto mesi di lavoro.
Dove poteva trovare alloggio anche un piccolo tormento?
Per alcuni secondo me nella più profonda noia, o quantomeno nella più profonda insicurezza e nel più irragionevole scollamento dalla vita reale.
Forse queste persone in quel momento non erano preparate a gustarsi il viaggio, ma solo preoccupate del viaggio stesso.
Quel viaggio per loro sarebbe stato fruttuoso solo se alla meta ci fosse stato un consenso unanime, anche se non lo avrebbero mai ammesso.
Io e il mio amico in sintonia non eravamo preda di quelle smanie.

Eravamo solo contenti.
Contenti di essere lì e basta.
Tanti anni sono passati da quegli odori, da quei ricordi da quei colori.
Circa un anno fa il mio amico in sintonia se n'è andato.
Solo lui sa dove.
Forse è andato a suonare in luoghi più confacenti al suo spirito.
E aveva un bello spirito credetemi.
E io ogni tanto ci penso.
E sorrido.
Ciao.
domenica 7 maggio 2017 0 commenti

Felicità

                           

A me piace il caffè.
Piace farlo.
Ma non mi piacciono però le cialde e le nuove tecnologie; e non per un esasperato attaccamento al passato, alla tradizione, o per il loro aroma.
Solo perché così viene meno il rito della preparazione, di quell'attesa che forse ne migliora anche il gusto, o almeno così mi illudo che sia.
Ed anche olfattivamente non c’è partita.
La cialda è sordomuta.
La moka dispensa.
La mattina siamo io e lei; a volte sembra un duello, a volte un incontro piacevole tra due vecchi amici, ma comunque nel piccolo tempo del parto è fondamentale la presenza.
Non puoi fare altre cose nel mentre.
Ti conviene aspettare lì davanti, perché mi è capitato (raramente devo dire) di non avere pazienza, di spostarmi per pochi secondi in un’altra stanza, magari calcolando i tempi della fuoriuscita; ed è proprio in quel momento che la signora mette in atto la sua vendetta.
Sentendosi trascurata anche se per poco, ti punisce fuoriuscendo copiosamente come se il non averla “amata“ per quei pochi minuti fosse un’onta irrimediabile.
Un'esagerazione penso, ma è così.
Non puoi nemmeno fidare sui segnalibri acustici.
Ci sono giorni che anche dal bagno con la porta chiusa riesci a sentire quel familiarissimo gorgoglio con annesso sbuffo che i bambini imitano così bene.
E a volte chissà perchè non c’è emissione di suoni.
Tracima e basta.
In silenzio.
Per cui la tua presenza in loco diventa obbligatoria.
Anche perché un caffè che fuoriesce con tutto quello che ne consegue predispone male la giornata.
E mentre stai lì ad osservare pensi.
E' un'azzeccata metafora se la si pensa come lo svolgimento della nostra vita.
C’è un pre, un durante, un adesso e un dopo.
Ci sono persone-cialde che vanno da sole; abbastanza perfette, precise, non hanno bisogno di particolari attenzioni, non danno sorprese.
Eseguono la vita.
Fanno il loro percorso lineari e senza sbavature.
Non sporcano.
Ma al tempo stesso non lasciano traccia.
Mentre le persone-moka sono imperfette, imprevedibili, non sono mai tutte uguali, e non hanno mai gli stessi tempi di esecuzione.
E a volte combinano piccoli disastri se trascurate, se costrette a farlo.
Ma hanno un’infinità di sfumature, di sorprese, di colori e soprattutto di odori.
Vivissime nella loro più totale imperfezione.
Una persona-moka senza i giusti ingredienti però può risultare insipida.
Ma nella maggior parte dei casi se la si conosce, e si presta la giusta attenzione non tradisce.
Dicono infatti, ma forse è leggenda, che una macchinetta per il caffè non deve essere mai lavata con il sapone, e più è vecchia è e più funziona bene, perchè “impregnata“.
Non so se sia vero… ma che costa crederci?
Ma se dimenticate di metterci l'acqua dentro parte a razzo, scoppia, impazzisce, provocando disastri.
E nella stragrande maggioranza dei casi il fatto è irreversibile.

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