S’era
assopita.
Nel tempo di uscire a fumare l’ennesima sigaretta.
Così la
guardavo mentre dormiva come l’avevo guardata mille altre volte.
Ma stavolta
era diverso.
Come
se guardandola intensamente avessi voluto stamparmi nella mente quel volto per
far sì che gli anni a venire non lo cancellassero.
Quanto
poteva ancora vivere non ce lo avevano detto con certezza nemmeno i medici.
Un
mese, sei mesi forse anche due anni a patto che quello strano cancro non perfettamente
localizzato avesse incalzato lentamente.
Era
tutto delegato al caso o a Dio per i credenti.
Però
pensavo che almeno dormendo soffriva di meno, chissà poi perché.
Quel
giorno era più o meno metà Agosto, nei pressi del mio compleanno; un assolatissimo
pomeriggio estivo romano di quelli che non fanno rima con ospedale, ma con
mare, collina, montagne, passeggiate, pennichelle.
Come
sempre ero andato a farle visita scambiando gli orari
con mio fratello che faceva altrettanto.
Facevamo
i turni come si dice in questi casi, cercando di non lasciarla mai sola; mio
fratello, io, nipoti, nuore, parenti più o meno stretti e tutte le persone che
avevano affollato la sua vita bella.
Anche
degli affiliati.
E
forse per cercare di tirarla sù o forse per tirarmi sù io, avevo fatto un po’
il giullare, il buffoncello come spesso accadeva, per sdrammatizzare,
alleggerire, per farla ridere un po’, rammentando cose dell’infanzia, parlando
di situazioni o persone che lei conosceva; a volte condivo abbondantemente
storie assurde e grottesche ma accadute realmente per strappargli un sorriso,
un cenno d’interesse e quando ci riuscivo mi sentivo bene.
Come
se quello fosse un compito a me prescritto da chissà chi.
Stavo
lì seduto su una sedia a sorvegliare che il respiro fosse più o meno regolare quando improvvisamente spalancò gli occhi come chi fino ad allora ha fatto
finta di dormire e disse:
‘’ ...ma io non lo posso prendere il caffè vero?’’
‘’
No ma’, hanno detto che è meglio evitare.’’
Non
rispose ma il suo silenzio e il suo girare la testa dall’altra parte somigliava
ad una una supplica muta.
‘’
Sai che faccio? Io vado giù al bar e te lo prendo lo stesso, bello denso e
tanto come piace a te. Affanculo i medici, per oggi li freghiamo… Non ha mai
ammazzato nessuno un caffè..’’
Sorrise
contenta che avevo fatto mio il suo pensiero e annuì.
‘’
Ma sì, io mi sento bene che male mi farà mai un caffè?’’
E
fece un sorriso complice largo quanto la stanza.
‘’
Niente, anzi secondo me ti fa pure bene.’’
Ed
ero pienamente convinto di questo.
Ma
mentre stavo per andare mi richiamò e, come quando da piccolo mi mandava a fare
al spesa e poi dalla finestra mi urlava quello che si era dimenticata, stavolta
a bassa voce disse quasi fosse un’aggravante al reato:
‘’
Ah guarda, visto che ci sei pure due bustine di zucchero’’.
Lei
lo prendeva quasi sempre amaro.