martedì 25 settembre 2012

Odore di ragù il sabatosera davanti alla tv biancoenero

MARASMA

Tutti i soprannomi, i nomignoli appioppati alle persone hanno in comune almeno tre proprietà.
La prima è che sono una sintesi abbastanza fedele del carattere della persona a cui è stato affibiato; la seconda, che con ogni probabilità questa nuova identità uno se la porta dietro tutta la vita; la terza, la più misteriosa, è che non si sa da chi, dove e soprattutto quando è stata coniata questa nuova pelle anagrafica.
Nel caso di Marcello era tutto abbastanza chiaro; l'unico dubbio riguardava la paternità dell'affibbiazione. Gli amici o la famiglia ?
Il perché di "Marasma" era lampante, ed aveva una doppia valenza..
Da sempre era stato un bambino terremoto, sia in casa che fuori e qualche libero pensatore aveva impastato il suo nome con la malattia che era nata con lui.
"Asmatico" era il marchio, e a poco o nulla erano valse tutte le cure alle quali era stato sottoposto.
Un'asma maligna, subdola, prefazione ed appendice delle giornate di Marcello.
Anche all'oratorio, per il prete che l'aveva visto nascere e per i compagni era "Marasma". E giocava all'ala destra come quei meravigliosi funamboli brasiliani coi nomi esotici, quelli delle figurine, tutto estro e fantasia, geniali ma incostanti, che alternano grandi prove di puro talento a enormi pause; assenze dal gioco e dalla vita.
E Marasma incarnava perfettamente questi suoi illustri predecessori.
Anche lui si concedeva pause improvvise, nella e dalla vita quotidiana. E in questi stop, in questi buchi neri del suo vivere, si rifugiava nella sua tana, nel suo "io" fatto di cartone.
Un vecchio imballo di un frigorifero buono, di quelli seri, che aveva raccattato fuori dal portone e aveva sistemato in uno spazio di nessuno.
Uno stretto camminatoio che c’era fra due palazzi confinanti ma che non combaciavano, come se il costruttore avesse volutamente lasciato quell'intercapedine ad uso del mondo, dei rifugiati, che loro malgrado diventavano così companatico tra due enormi fette di cemento armato.
Ci stava bene Marasma nel suo rifugio; si accomodava dentro l'imballo, apriva le danze della fantasia e dalla faccia mancante del cartone guardava il mondo.
Guardava e ogni tanto tossiva secco.
Pensava alla madre sempre di corsa, sempre un po' preoccupata.
Gli sembrava quantomeno strano come da quelle stesse mani fuoriuscissero tremende sberle, magari per una scarpa rotta, e dolcissime carezze quando lui era sul punto di addormentarsi.
E poi gli occhi della mamma grandi e velati, quando dopo pranzo Marasma faceva i compiti sul tavolo di cucina, un po' asciugavano i piatti e un po' lo penetravano di baci.
E poi la sua testa correva al padre, che da un anno disoccupato si sbatteva per trovare uno straccio di lavoro. E fumava. Tanto.
Gli voleva bene a suo padre, e sarebbe stato disposto a prendere qualsiasi medicina per crescere velocemente tanto da poterlo aiutare.
E la tosse aumentava quando gli veniva in mente quel che aveva sentito al telegiornale; un personaggio famoso della tivvu’, che licenziato pure lui, aveva fatto causa al padrone e in un mesetto aveva risolto tutto portando a casa tanti di quei soldi che avrebbe potuto comprare il palazzo che non combaciava e tutti gli imballi del mondo.
Anzi, tutti i frigoriferi del mondo.
Pure suo padre aveva fatto causa al padrone, ma in un annetto aveva portato a casa solo le lettere di sollecito dell'avvocato che chiedeva sempre altri soldi. Per le spese, si sa.
E pensava a Don Sergio, che tra una partita e l'altra all’oratorio trovava il tempo per educarli alla pace, alla fratellanza, all'altruismo.
E poi sorrideva ad Antonio, suo fratello, che era militare e tornava di rado, un po' per la distanza, un po' perché tornare per un paio di giorni era come passare davanti a una pasticceria senza poter entrare diceva Antonio.
Almeno lì nella grande città poteva andare in discoteca e divertirsi, pensava Marasma.
E gli venivano in mente gli amici dell'oratorio che giocavano meno bene di lui, ma che erano meno incostanti e soprattutto non tossivano.
E Don Sergio sempre lì a ricordare che l'uomo ha dei diritti ma anche dei doveri, e che la dignità, l'onestà e il rispetto per il prossimo, sono le fondamenta sulle quali poggia l’esistenza di ogni essere umano.
Solo che la testa di Marasma era troppo piccola per contenere tutti quei pensieri così grandi; ecco perché a volte diventava "cattivo".
Tra la tosse, i pensieri e i genitori che non potevano comprargli le scarpe da gioco nuove, s'innervosiva, si sentiva schiacciato come se i due palazzi confinanti stufi della loro anomalia, decisi a rientrare in una sacrosanta buona norma, si baciassero lentamente ed ingoiassero lui e il suo rifugio.
Ce l'aveva un po' anche con Don Sergio; tutte quelle belle parole pensava, valevano solo dentro le mura dell'oratorio.
Fuori era esattamente il contrario.
E allora diventava tutto inutile. Era una presa in giro.
O gli insegnamenti di Don Sergio valevano per tutti anche fuori, o il personaggio famoso della tivvù doveva restituire i soldi e magari andare all'oratorio pure lui .
Sì, perché Marcello dentro quelle quattro mura che recintavano il campetto e il cielo, si sentiva sicuro, come nel rifugio.
Era quando usciva da lì che non si ritrovava, che camminava rasomuro.
E allora siccome il padre votava per i comunisti e all'oratorio non ci sarebbe entrato mai, avrebbe voluto portare tutti nel suo imballo; la madre il padre, il fratello, Don Sergio e tutti gli amici. Forse anche il personaggio famoso della tivvù.
Forse.
Tutti insieme a guardare il mondo da lì, dal cartone con la faccia mancante.
Così, anche la tosse sarebbe stata meno fastidiosa.

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